I sette samurai di Akira Kurosawa
Probabilmente quando si parla di cinema giapponese o, più in generale, di grande cinema non può farsi a meno di pensare al grande maestro (titolo sicuramente meritato) Akira Kurosawa. I suoi film sono ormai dei classici del cinema internazionale che hanno ispirato generazioni di registi, oltre che ad essere oggetto di citazioni, riletture o remake.
I sette samurai è un grande, magnifico film di Kurosawa, “saccheggiato” dal genere western e da molti film d’azione. Un villaggio di contadini subisce regolarmente le incursioni e le rapine di un gruppo di briganti, per evitare di subire nuovi soprusi gli abitanti decidono di assoldare dei samurai che possano difenderli dai banditi. Il problema principale è che i contadini non hanno grandi risorse e devono trovare dei samurai che si accontentino di quel poco che possono offrire come ricompensa. Alcuni di loro partono alla ricerca dei samurai, ma questa non si dimostra semplice fino a quando i contadini non si imbattono in Kambei Shimada (Takashi Shimura), un samurai che per primo decide di aiutarli offrendosi non solo di combattere per loro ma anche di trovare altri sei samurai disposti ad affiancarlo, ritenendo questo il numero necessario per battersi contro i briganti. La ricerca termina quando i samurai sono in sei più Kikuchiyo, coraggioso contadino che finge di essere un potente guerriero (interpretato da un magnifico Toshirō Mifune). Recatisi al villaggio i samurai si apprestano ad organizzare e progettare la difesa dello stesso. Si battono strenuamente e la battaglia termina con la sconfitta dei briganti ottenuta al costo della vita ad alcuni di loro.
Credo che definire I sette samurai un capolavoro del cinema mondiale non sia un’esagerazione. È un film magnifico che rapisce completamente lo spettatore, Kurosawa riesce a realizzare una magia cinematografica trasportandoci in un tempo lontano e rendendolo ai nostri occhi reale. Si ha l’impressione di visitare il Giappone medievale e di osservare reali scene di vita di quei tempi. Mi è capitato di leggere alcune critiche che considerano il realismo di Kurosawa un limite di questo film. Personalmente credo che proprio il realismo espresso nel film sia un suo punto di forza, con questo film vengono demoliti alcuni stereotipi che nell’immaginario collettivo abbiamo dei samurai e dei combattimenti in cui venivano coinvolti. Infatti, i combattimenti non sono armoniosi o spettacolari, non sembrano danze splendidamente coreografate, come quelli ai quali siamo stati abituati ad assistere al cinema. La disarmonia dei movimenti impera, spesso i samurai che ci vengono mostrati non sono grandi guerrieri ma goffi combattenti. I samurai vengono mostrati in tutta la loro umanità e spogliati di quell’alone mitico di cui spesso vengono investiti, sono uomini con le loro debolezze ed i loro punti deboli. Anche i contadini vengono impietosamente rappresentati da Kurosawa in tutta la loro realtà, non sono ingenui e di buoni sentimenti ma cinici e cattivi.
Una particolare menzione merita l’attore Toshirō Mifune, che interpreta il contadino-samurai Kikuchiyo, un rozzo sognatore capace di divertire e commuovere, di rappresentare l’incontro-scontro tra il mondo contadino e quello dei samurai. Kikuchiyo è il personaggio che più rimane impresso nella memoria dello spettatore, rappresenta in modo perfetto la contraddittorietà dell’uomo, il suo eterno combattere le proprie origini per diventare ciò che vorrebbe essere, ciò a cui aspira. Kikuchiyo non riesce ad abbandonare e a tradire completamente le sue origini contadine, nonostante tenti con tutte le sue forze ad elevare il suo status sociale diventando samurai, non riesce a fare a meno di provare empatia nei confronti della difficile situazione dei contadini.
Nel film viene utilizzato lo schema narrativo, utilizzato in molti film d’azione, della ricerca e della scelta dei membri di un gruppo che dovrà compiere un’impresa eroica.
Remake di questo film è il western Hollywoodiano del 1960 “I magnifici sette” di John Sturges.
Cesidio Tatarella