Samurai
I samurai, nella millenaria storia del Giappone, erano i guerrieri che formavano una casta aristocratica separata dalla nobiltà terriera. Ma cosa sappiamo veramente sui samurai? La nostra letteratura occidentale e i numerosi film sul tema ci hanno fatto conoscere questa figura storica avvolta nel mistero e in una mitica aura di coraggio, ma rischiamo di accontentarci di uno stereotipo di valore e onore che non corrisponde del tutto alla verità storica. Non tutti infatti sanno sanno quali erano i loro compiti e quale era il loro ruolo all’interno della società giapponese. Siete pronti per un tuffo del passato nella terra del Sol Levante? Andiamo insieme a scoprire chi erano i samurai.
Storia e caratteristiche principali della figura del samurai
Il temine samurai deriva dal verbo “saburau”, che significa “servire”, più letteralmente sta a indicare colui che serve e che sta a lato del signore, come per poter intervenire prontamente non appena richiesto. Tra il XII e il XVII secolo in Giappone esisteva una sorta di sistema feudale paragonabile a quello europeo. C’erano dei signori, che erano aristocratici e possessori di terre, chiamati daimyo il cui termine in giapponese significa “grande nome”. Questo periodo fu caratterizzato da continue guerre e lotte interne tra varie famiglie di nobili che si contendevano il potere. In questo periodo storico, soprattutto tra il XV e il XVI secolo la figura del samurai raggiunse l’apice della sua grandezza e i daimyo si circondavano di queste figure pronte a proteggerlo in qualunque frangente. I samurai erano dei nobili che venivano addestrati sin da piccoli all’uso delle armi, al perfezionamento nelle arti marziali, sia nel loro significato fisico che filosofico. Si esercitavano anche in altre arti affini, come la scrittura. Per questi guerrieri il feudo non rappresentava solo una casa, ma anche un’identità. Infatti i samurai che rimanevano senza signore, perché era morto o perché venivano cacciati dal feudo per qualche colpa commessa, erano discriminati e disprezzati. Non erano più dei veri e proprio samurai e venivano detti “ronin”, letteralmente “uomo onda” che sta a indicare un individuo libero da vincoli. La definizione a noi magari non suggerisce niente di negativo, ma nella cultura antica giapponese il fatto di non avere legami era fortemente riprovevole e in contrasto con i buoni principi di lealtà, devozione e purezza che governava l’animo di un samurai legato al suo signore. Questo giudizio probabilmente derivava anche dal fatto che chi non aveva vincoli era meno controllabile, di fatto molti ronin si univano per creare bande che saccheggiavano i villaggi. Motivo per cui se un samurai uccideva un ronin, poteva essere sicuro di non aspettarsi vendette, essendo il ronin un guerriero considerato allo sbando e quasi pericoloso. Altri ronin, invecem diventavano cavalieri solitari e erranti che si potevano anche mettere volontariamente a servizio di un villaggio o diventare maestri di arti marziali. Col passare del tempo, comunque, il potere dell’ordine dei samurai divenne perlopiù simbolico e reverenziale. Il culmine della loro decadenza si attuò durante l’Ottocento quando, nell’epoca del rinnovamento Meiji, la casta dei samurai venne abolita. Al loro posto fu indetta la creazione di un esercito nazionale sull’onda di quello che stava accadendo nel resto del mondo occidentale.
Il codice di onore del samurai
In Giappone, oltre ai nobili samurai, esistevano altri guerrieri ordinari, ma il samurai si distingueva da loro, perché tutto ciò che faceva e in realtà tutta la sua vita, esteriore e interiore, seguiva con cieca devozione i comandamenti di un codice etico chiamato Bushido. Il termine significa “la via del guerriero” e si trattava di un ricchissimo regolamentario di situazioni e comportamenti a cui il samurai doveva attenersi. Il punto focale del codice era la lealtà assoluta verso il feudatario e l’inflessibile ricerca del proprio automiglioramento. La ferrea disciplina si rifletteva in tutti gli ambiti della sua esistenza, sia al di fuori che dentro la battaglia. Un buon samurai ad esempio era quello che riusciva ad uccidere il suo nemico con un solo colpo. Era necessario un taglio perfetto che dava una morte più pietosa e immediata, senza sofferenza. Quest’unico colpo era il risultato di una lunga serie di allenamenti, sforzi e fatiche durate anni. Il mantenimento del rigido codice d’onore dei samurai si traduceva a volte in fenomeni estremi come il suicidio. Infatti, se un samurai si macchiava di una vergogna o di una colpa imperdonabile poteva arrivare ad autopraticarsi il rituale del seppuku o harakiri, termini che sono quasi sinonimi e che indicano una forma di suicidio onorevole, regolamentata da precise norme. Attraverso questa scelta il samurai screditato aveva la possibilità di recuperare il proprio onore di fronte alla comunità e al proprio daimyo. In casi estremi accadeva che il suicidio rituale fosse praticato non per recuparare la purezza dopo una colpa, ma per la mera occasione della morte del proprio daimyo, al fine di evitare la vergogna di diventare un ronin, un samurai errante che era stato abbandonato dal suo signore.
Come avveniva il rituale del suicidio
Il rito previsto per il suicidio era pieno di norme che a noi occidentali potrebbero sembrare davvero assurde, ma nell’ottica di una cultura dell’onore acquistano un enorme significato. Per purificarsi dalla colpa commessa o per evitare una fine disonorevole il samurai decideva di darsi la morte attraverso il taglio del ventre. I giapponesi ritenevano infatti che l’anima di una persona risiedesse nel ventre, per cui l’intento metaforico del suicidio era quello di dimostrare a tutti i presenti la propria anima mondata dagli errori commessi. In principio molti furono i casi di harakiri volontari, ma dal 1600 divenne una sorta di condanna a morte onorevole riservata per guerrieri di alto ramgo. I giudici, tenendo conto dello status di nobiltà del condannato non procedevano a un’esecuzione ordinaria, ma invitavano o costringevano il condannato a suicidarsi. Il samurai doveva stare inginocchiato con le punte dei piedi rivolte verso l’indietro per evitare che il corpo cadesse supino. Era infatti considerato più onorevole morire cadendo in avanti. Il taglio inferto doveva andare da sinistra a destra e poi verso l’alto e subito dopo il colpo autoinflitto, secondo il codice prefissato, doveva intervenire un amico del samurai, da lui scelto, per decapitarlo. Questo per far sì che il dolore non figurasse l’espressione del moribondo. L’esecutore della decapitazione doveva essere molto abile, perché un errore nel colpo al collo poteva avere il rischio di causare solo ulteriori sofferenze. Questa pratica in certe sue sfumature può sembrarci davvero atroce e, in effetti, esprime alla perfezione il limite massimo di devozione a cui un individuo poteva arrivare a sottoporsi solamente per ubbidire alla rigida codificazione di un codice sociale basato sull’onore e sulla lealtà più assoluta.
Le armi dei samurai
I samurai imparavano fin da piccoli a combattere e a difendersi usando una grande varietà di armi. A differenza dei guerrieri europei, ai samurai era vietato l’uso delle armi da fuoco, perché considerate disonorevoli. Una delle armi più usate, e senza dubbio la più frequente nell’iconografia dei samurai, è la katana, una spada simile a una stretta sciabola dotata di una impugnatura da tenere con due mani. La katana presenta una lama lievemente curva, a taglio singolo, solitamente lunga più di 60 cm che veniva portata alla cintura. È un’arma dalla linea elegante, di incredibile leggerezza, che veniva forgiata secondo un’arte ormai perduta da secoli. Oltre alla katana esisteva anche un’altra spada più piccola, detta wakizashi. La possessione di entrambe era simbolo di enorme prestigio nella casta dei nobili guerrieri. Anche l’arco e le frecce rientravano nel corollario bellico dei samurai. L’arco era di grandi dimensioni e, se usato con competenza, poteva rivelarsi un’arma potentissima, che permetteva di lanciare frecce e dardi infuocati anche alla distanza di 200 metri. La lancia entrò nell’uso dei guerrieri a partire dal XV secolo, soprattutto perché fungeva come arma perfetta per disarcionare i cavalieri nemici nelle grandi battaglie campali con cariche a cavallo.
La fine dei samurai
Nel corso dell’Ottocento il Giappone, dopo secoli di isolamento commerciale e culturale, cominciò ad aprirsi al mondo esterno e il confronto con le grandi potenze fece apparire la casta dei samurai come un residuo del passato alla stregua di cavalieri medievali. Nel 1876 l’allora imperatore Meiji proclamò l’editto Haitorei con cui vietò ai samurai di portare addosso in pubblico la katana e il wakizashi. Questo legge in pratica, corredata da un’altra che li obbligava a tagliarsi il codino e a portare i capelli secondo la moda occidentale, determinò la fine del prestigio sociale dei samurai. Da quel lontano momento storico il progresso e i dettami della società capitalista cominciarono a fare irruzione nell’antica cultura giapponese relegando la figura del samurai a un immaginario superato.
L’immagine del samurai oggi
Oggi però la figura del samurai ci viene restituita dalla fantasia della letteratura e del cinema. Numerosi autori e registi si sono ispirati a questo mondo per trarne storie di grande pathos, come nei film di Zhang Yimou, un regista giapponese che ha diretto molte pellicole di ambientazione giapponese per un passato ricco di eroi, samurai e maestri di scrittura e arti marziali. Una chiave di interpretazione più moderna della figura del samurai è stata data da Quentin Tarantino, il noto regista statunitense affezionato all’estetica della katana e dei samurai. Nella saga cinematografica di Kill Bill il racconto parte dall’iniziazione alle arti marziali di Black Mamba e dall’incontro con Hattori Hanzo, un abilissimo maestro di Okinawa che si presterà a forgiare per lei una spada perfetta, costruita secondo l’antica arte segreta delle katane.
Oggi quindi si può dire che la figura del samurai sia ancora viva nel nostro immaginario di finzione narrativa, come esempio di rettitudine, lealtà e coraggio che lo contraddistingue.