La mia host family giapponese
Come ho scritto nell’articolo di presentazione (La storia di Alechan), ho fatto moltissimi viaggi in Giappone prima di diventare a tutti gli effetti una residente.
L’anno in cui decisi che avrei voluto studiare la lingua, la scuola giapponese dove andai a frequentare i 3 mesi di corso mi propose diverse scelte di alloggio.
Poiché mi ero pagata tutto da sola e non navigavo nell’oro, scelsi l’opzione più economica che era l’alloggio in una host family.
La cosa mi rendeva un po’ ansiosa, devo ammetterlo.
Nel senso, io non è che fossi una grandissima fan della cucina giapponese, a quel tempo ero ancora al “togliere le alghe e mangiare l’onigiri senza”, per cui ero un po’ dubbiosa.
Avevo sentito racconti di amici che si erano trovati in case con stanze piccolissime in altri Paesi, oppure che erano stati in famiglie dove la pulizia lasciava molto a desiderare. Non erano esperienze avute in Giappone, ma questa era una magra consolazione.
Ora, per una come me che ha bisogno di spazi possibilmente areati e puliti, la cosa era quantomeno preoccupante, ma non avevo soldi per un appartamento e la host family a quel tempo mi costava circa trentamila yen al mese.
Non c’erano molte alternative disponibili.
Beh, probabilmente è stata una delle scelte più azzeccate di tutta la mia vita.
Premessa doverosa, quello che è capitato a me per quanto riguarda la host family, che ancora oggi a distanza di più di 10 anni è la mia seconda famiglia, non sarà certamente uguale a quello che capita agli altri e questo è ovvio.
Ma se mai qualcuno mi chiedesse cosa penso delle sistemazioni in host family, direi sicuramente di provarle.
Anche se potrebbe non andare così di lusso come andò a me.
Torniamo alla storia…
Arrivata a Narita, un rappresentante della scuola venne a prendermi e mi portò in treno fino alla stazione più vicina alla mia futura casa.
Poi da lì con un taxi, dato che avevo un valigione pesante 40 kg, ci avvicinammo di più.
Ero preoccupata perché intorno a me vedevo tutti questi palazzi piccoli e lunghi… non sono claustrofobica ma pensare di passare tre mesi in un cunicolo non mi faceva impazzire come idea.
Il taxi si fermò sulla strada, una signora ci stava aspettando e appena vide la mia borsa disse “oh ma quella non ci entra in camera!”
Ho avuto un attimo di mancamento. In che caspita di posto ero finita?
Ma le cose erano molto meglio di come mi aspettassi perché a differenza di entrare nel palazzo davanti a cui si era fermato il taxi, la signora ci portò in una stradina dove c’era una casa che ne occupava un terzo.
Con tanto di due piani, giardino con laghetto, alberi intorno e cagnolona da guardia.
Quando vidi la signora aprire il cancelletto mi si sollevò il cuore.
In pratica, ero finita nella casa più grande del quartiere!
Appena arrivati, io e il rappresentante della scuola venimmo portati in una sala enorme decorata come un salone occidentale, con tanto di quadro del capofamiglia in bella vista, dove ci attendeva suddetto capofamiglia, sua moglie e una delle figlie, che oltretutto parlava italiano.
Ci siamo presentati, prima incasinatura perché ci hanno offerto del tè verde al quale io NON ero abituata, ma che ho trangugiato per educazione.
Il capofamiglia mi guardò ma parlò quasi sempre la figlia, mentre la mamma era lì a sorridere e lui zitto, dritto come una quercia e di portamento maestoso.
Io intanto non riuscivo a credere ai miei occhi.
Avevo sentito dire che le case giapponesi erano piccole, cunicoli stretti, qui invece non capivo nemmeno quanto grande fosse la casa per quante porte e ramificazioni vedevo ovunque.
Finite le presentazioni, la signora mi portò al piano di sopra dove sembrava di essere in un nuovo appartamento!
Io avevo pensato e temuto che avrei dovuto mangiare con loro, e non essendo una persona di facili gusti la cosa mi preoccupava. Esce fuori che la mia camera, grossa più o meno quanto il salone di casa mia italiana, era dotata di ogni confort, anche di una cucina, grande.
Avevo inoltre un bagno tutto per me con annesso anche l’ofuro.
In pratica, ero in famiglia, ma la famiglia viveva tutta al piano di sotto mentre io ero al piano di sopra.
La mia vita in Giappone non poteva cominciare meglio!
Nel mio periodo di 3 mesi lì, i miei rapporti con tutti loro si fecero veramente stretti.
La figlia, una cinquantenne non sposata, mi insegnò a chiamare il padre e la madre otousama e okaasama e ogni tanto mi portava in giro a mangiare okonomiyaki, shabu-shabu, takoyaki e altre prelibatezze.
Mi fece piano piano girare il quartiere dicendomi quali erano i negozi migliori o più buoni.
Mi presentò a tutti. E tutti la conoscevano!
“Ma che razza di gente era questa?” Pensai.
Poi un giorno arrivammo davanti ad una clinica e mi disse “Se hai dei problemi, se qualcuno ti insegue (??), entra qui, dì che sei amica nostra e loro si occuperanno di te”.
Non capivo bene perché dovessi entrare proprio lì ma a parte questo piccolo punto interrogativo, la mia vita andava avanti tranquilla.
La mattina andavo a scuola e cercavo di fare piano quando uscivo perché se la okaasama mi beccava mi fermava sulla porta e mi portava del miso per cominciare bene la giornata.
Quanti ritardi perché ero sull’entrata di casa a bere il miso bollente mentre lei mi guardava con il sorriso.
Era una donna fantastica, le volevo bene come fosse una delle mie vere nonne, e un po’ la ricordava infatti.
In seguito cominciai a scoprire la storia di queste persone.
Erano evidentemente ricchi.
Venivano da Kanazawa, il padre possedeva due ospedali nel quartiere ed era un medico molto famoso per le sue cure del cancro allo stomaco. La clinica di cui ho parlato sopra era ovviamente una di quelle che possedevano e precisamente quella dove il padre era anche direttore.
La madre era quanto di più dolce possa esserci sulla faccia della terra, mi scriveva delle lettere, mi regalava dei soldi quando la figlia non la vedeva dicendomi di comprarmici del tè (mi dava 10.000 yen a botta, ci rendiamo conto?).
La figlia era invece una fan dei manga yaoi, era andata fino a Bologna per sentire una conferenza dei Kappa Boys sull’argomento. E pensare che io le prime volte ancora non conoscevo i manga yaoi, più avanti invece cominciammo a scambiarceli sia con lei che con l’altra figlia.
Sì, perché avevano anche altri figli, due femmine, una sposata e che viveva fuori Tokyo, e l’altra in Nuova Zelanda e un maschio che stava ad Aomori, dove avevano un altro ospedale. Anche lui medico.
Successivamente, nel corso degli anni la casa si riempì, la sorella che stava in Nuova Zelanda ritornò e l’altra sorella che era sposata, quando la salute dei due genitori peggiorò, ritornò per prendersi cura di loro.
Una famiglia così perfetta, mi dissi, non la potevo perdere e da quel lontanissimo anno, ogni volta che andavo in Giappone, stavo da loro.
Nel corso del tempo furono loro a insegnarmi molte delle cose che ho scritto nell’articolo delle parole magiche giapponesi, fu guardando la okaasama che mi resi conto di cosa significa la gentilezza giapponese, quella che ti porta a dare due pesche al postino quando lo vedi che ti recapita un pacco troppo pesante.
Mi ricordo che la Domenica mattina mi svegliavo con la musica classica a tutto volume perché l’otousama di sotto, nel suo giorno di riposo, ascoltava Vivaldi, Mozart e Beethoven.
Aprire gli occhi con la Primavera di Vivaldi… era bellissimo. E io non sono neanche una grande fan della musica classica!
In seguito portai anche le mie amiche ed amici conosciuti all’università, a stare da loro.
In quel secondo piano arrivammo a starci in sei… e ci sarebbe stato ancora spazio, stavamo utilizzando tre camere su quattro.
Ovviamente tutte le camere erano enormi.
Il tempo passò e i rapporti si intensificarono ancora di più.
Arrivò il momento in cui decisero che il padre doveva smettere di lavorare, e tutti furono impegnati a cercare di scegliere il miglior compratore per gli ospedali della zona.
Mi ricordo che una delle figlie un giorno mi disse “Io non me ne ero mai resa conto, ma siamo veramente ricchi”.
Erano anni che tentavo di farle capire che le persone normali non comprano vestiti da 60.000 yen… ma lei non lo ha capito finché non lo ha sperimentato facendo quei calcoli.
Quando mi trasferii in Giappone la prima volta col mio visto lavorativo, andai a stare da loro.
Per un anno la mia residenza a Tokyo fu a casa loro, e non dovevo neanche mettere più il loro nome quando scrivevo il mio indirizzo perché ormai il postino sapeva che stavo lì.
In quell’anno, il 2010, arrivò da noi anche la mia futura coinquilina, una ragazza di Kumamoto fantastica con la quale sono amica anche adesso.
Per farla breve, queste persone si sono prese cura di me.
Forse non nel modo ortodosso in cui ci si può aspettare da una host family. Non vivevamo insieme ogni momento, ma ci vogliamo bene. Lunghe chiacchierate, io che preparavo cibi italiani per loro e la okaasama che mi portava quello che preparava lei di sotto.
Proprio la okaasama è venuta a mancare lo scorso Ottobre e per me è stato uno shock.
Dopo che se n’era andata la mia nonna preferita, mi ero attaccata alla mia okaasama perché me la ricordava tantissimo. Quando ricevetti il messaggio della mia ex coinquilina, tornata a Kumamoto adesso, che mi chiedeva quando sarebbe stato il suo funerale mi sembrò di vivere in una realtà parallela.
Mi sento parte della famiglia, se sono nel posto dove alloggio ora, è grazie a loro perché hanno degli appartamenti in giro per Tokyo (i soldi delle vendite degli ospedali li hanno investiti in proprietà immobiliari).
Mi chiesero di fare il ricevimento al funerale, in pratica dovevo star lì a prendere i soldi che portavano gli amici e fargli scrivere il nome e cognome su un registro.
E poi cantai, perché alla okaasama piaceva tanto quando cantavo e la famiglia mi chiese di farlo, così con tutto che era una cerimonia buddista, la gente rimase a sentirmi cantare “Amazing Grace” dopo la veglia funebre.
E la sera, in quel periodo, rimanevo da loro per fare i conteggi di quanto era stato dato, perché è vero che si ricevono soldi durante i funerali, ma è anche vero che metà dei soldi ricevuti vanno rimandati al mittente in forma di regali. Quindi se non tieni il conto finisce male.
Mi chiesero di partecipare al funerale vero e proprio con cremazione e passaggio di ossa.
Uno degli eventi più traumatici della mia vita.
La spiegazione di questa usanza ve la darò in seguito, dato che sto preparando un articolo sui tabù giapponesi, quindi capirete cosa intendo.
Un mese dopo morì anche il padre. Stessa cosa.
Adesso faccio avanti e indietro perché da quando i genitori non ci sono più il resto della famiglia si è disperso ed ora solo una delle figlie è rimasta lì. Ho anche cominciato ad odiare l’odore dei fiori perché mi ricordano i funerali.
Una casa enorme e piena di vita come quella che mi si presentò più di 10 anni fa adesso è diventata così grande e vuota.
Il finale purtroppo non è dei migliori, ma la vita non lo è quasi mai e il tempo passa per tutti.
Io però, come diceva sempre la okaasama, sono grata per tutto quello che ho avuto, sono grata al destino per avermi fatto incontrare queste fantastiche persone e sono grata per tutti gli insegnamenti, le sgridate, i momenti in cui ho pensato “oddio ma sul serio?” e che hanno reso probabilmente il Giappone un posto a me ancora più caro.
Non dico che tutti quelli che avranno la possibilità di fare esperienza in una host family si troveranno bene come mi ci sono trovata io, però bisogna pensare questo… Il Giappone è un paese abbastanza chiuso, e questo è risaputo, il fatto che ci siano famiglie disposte ad accettare uno straniero che viva con loro è una cosa enorme.
Si può imparare tanto stando a contatto con una famiglia giapponese e sicuramente sarà un’esperienza indimenticabile se vi capiterà di farla nella vostra vita.