Kyudo
Il termine giapponese Kyudo letteralmente si traduce in Via dell’arco ed indica un’arte marziale basata sull’utilizzo di un arco dalla particolare forma asimmetrica, lo Yumi, che presenta la parte superiore, rispetto all’impugnatura, decisamente più lunga della parte inferiore.
Denominata Kyujutsu fin dall’antichità, questa disciplina ha adottato solo nel 1926 il suo nome attuale, oggi comunemente usato in tutto il mondo per definire la tecnica dell’arco giapponese.
Il Kyudo, la via dell’arco giapponese – la storia
La disciplina del tiro con l’arco nasce praticamente insieme al Giappone. Già nell’era preistorica, quest’arma era correntemente utilizzata per la caccia ed il sostentamento, diventando da subito uno strumento dalla valenza sacra, poiché gli uomini dell’epoca ritenevano fosse stato donato loro dagli dei affinché potessero provvedere alle loro necessità.
La sacralità attribuita all’arco ha consentito, fin dall’antichità, la nascita di una funzione cerimoniale dell’arma, confermata da numerosi reperti archeologici. Nel VII secolo la nobiltà giapponese praticava una particolare cerimonia di tiro con l’arco, denominata jirai, e tutti i maggiori clan militari disponevano di campi da destinare alle esercitazioni con questa elegante arma, sia all’aperto che al chiuso.
Divenuto ben presto simbolo di lignaggio elevato, l’arco, insieme alla spada lunga, era l’arma dei nobili e dei loro vassalli, di contro, lance e spade corte rappresentavano l’equipaggiamento dei soldati comuni. Oggetto di origine divina ed arma bellica per eccellenza, la disciplina dell’arco fu inserita tra le materie di studio essenziali per l’educazione dei giovani aristocratici di corte.
Col passare del tempo la disciplina dell’arco ha acquisito sempre maggiore importanza, diventando fondamentale per la formazione di soldati e nobili. La destrezza e l’abilità dei guerrieri indusse gli storici cinesi a definire i giapponesi come il popolo del lungo arco. L’arma generalmente utilizzata in guerra, infatti, il daikyu, aveva lunghezza variabile da due metri e venti a due metri e settanta e veniva utilizzato dai soldati a piedi come da quelli a cavallo.
Nel XV secolo l’arte del tiro con l’arco ricevette la sua consacrazione grazie all’eroe nazionale giapponese Heki Danjo Masatsugo, i cui insegnamenti vennero codificati in una scuola e tramandati di generazione in generazione, fino a costituire, ancora oggi, la tecnica più diffusa di questa nobile arte marziale.
La scuola Heki si è rapidamente diffusa in tutto il Giappone sebbene, al suo interno, convivessero stili diversi generati dalle influenze regionali in essa confluite. Quando agli inizi del XVII secolo lo Shogun Tokugawa chiese ad un Maestro della scuola Heki di poter apprendere la via dell’arco, il Kyudo, questa poté fregiarsi dell’appellativo di “Scuola dello Shogun”, vale a dire “Heki To-ryu” dal nome della casata di appartenenza del generale dell’esercito Tokugawa.
Oggi coesistono, in Giappone, due stili di tiro con l’arco. Accanto alla Heki To-ryu, le cui immutabili tecniche si tramandano da ben 19 generazioni, esiste lo stile Shomen, che nasce da una sintesi realizzata in Giappone nel 1900 per uniformare, in un solo stile, tutte le scuole provenienti dalle diverse realtà locali.
La differenza sostanziale risiede nel carattere più rituale e cerimoniale di quest’ultimo, il cui fine non è necessariamente quello di colpire il bersaglio. La scuola di Heki, che discende da una consolidata tradizione militare, al contrario, trova nel bersaglio il suo obiettivo principe, trattandosi di una disciplina che vide la luce in una situazione dove sbagliare poteva significare perdere la vita.
La raffinata tecnica del Kyudo giapponese
L’arco tradizionale giapponese è realizzato mediante l’assemblaggio di lamine di legno e di bambù. La progressiva sostituzione del bambù con i materiali sintetici, meno costosi e comunque performanti, come il carbonio e la fibra di vetro, ha contribuito alla diffusione dell’arte marziale in maniera più capillare, consentendone anche l’ingresso nelle scuole moderne.
Giovani, studenti e principianti in generale possono comunque dotarsi dell’equipaggiamento necessario per apprendere le tecniche della via dell’arco senza affrontare costi elevati. Nelle competizioni ufficiali, in ogni caso, non esistono norme rigide circa la potenza dell’arco e, pertanto, ogni arciere può scegliere l’attrezzatura che preferisce in base alle proprie caratteristiche fisiche.
La peculiarità fondamentale del tiro Heki è il movimento che viene eseguito con la mano sinistra, quando spinge con forza l’arco in avanti e lo torce, con una serie di movimenti precisi, quasi rituali, che conducono la freccia accanto allo zigomo. Nei pochi secondi che separano l’attimo in cui la freccia tocca il viso dell’arciere da quello dello scocco, detto nobiai, si concentra l’essenza più profonda del Kyudo.
La corretta tensione del corpo ed i movimenti armonici dell’arciere consentono lo scoccare della freccia, ma solo una tecnica corretta e vera, unita alla sincerità dello spirito consentono di colpire il bersaglio. Il Kyudo è una disciplina che non mette di fronte due contendenti; l’arciere non è pressato dalla presenza di un antagonista del quale deve prevedere e contenere le mosse. Per questo motivo potrà esprimere la tecnica pura nel migliore dei modi trovando, come unico “avversario” esclusivamente sé stesso, con i propri limiti e le proprie capacità.
Il tiro con l’arco si esercita a piedi scalzi, sulla pavimentazione in legno di un dojo, l’apposito spazio destinato agli allenamenti. I bersagli sono posizionati al coperto, su un rialzo in terra definito azuchi.
All’inizio degli allenamenti si usa una freccia in bambù priva di penne e si mira ad un paglione dalla distanze di due metri; quindi si passa al mato, un bersaglio di carta bianco e nero, dal diametro di 36 centimetri posizionato a distanza di 28 metri. Un allenamento completo prevede lo scocco di 100 frecce, tra cui quelle cerimoniali, da scoccare in ginocchio ed in piedi. Sporadicamente il tiro viene effettuato dai 60 metri verso un bersaglio che non è più il mato, bensì un paglione di circa un metro di diametro. In questo caso le frecce saranno più leggere e la mira lievemente più alta.
Il kyudo e la filosofia della via dell’arco
Come le arti marziali in generale, il Kyudo è praticato da coloro che desiderano raggiungere un particolare stato dell’animo, che ambiscono a dominare il corpo disciplinando il proprio comportamento. Non a caso alla base della via dell’arco c’è la convinzione che i progressi che l’arciere compie con la pratica siano dovuti all’esperienza, ma anche all’irrobustimento dello spirito derivante dall’allenamento costante.
Il fine ultimo della disciplina del kyudo consiste nell’arrivare a comprendere lo spirito dell’arco. Solo quando l’arciere avrà operato il corretto Nobiai (massima tensione dell’arco e massima estensione del corpo) potrà raggiungere il più alto grado di conoscenza della natura profonda delle cose, e sarà capace di prendere le dovute distanze dalle cose futili.
Praticando il Kyudo è possibile raggiungere uno stato in cui l’animo è limpido; la profonda conoscenza della tecnica di tiro con l’arco, nel rispetto delle regole imposte dalla tradizione, può consentire all’arciere di coltivare le virtù proprie del Bushido, l’etica leggendaria del guerriero nipponico, come la serenità, la correttezza, l’intuizione, la sincerità, l’equilibrio, la generosità, la determinazione.
La tecnica di tiro racchiude forme e azioni che in alcuni casi richiamano le tecniche Zen, ma il Kyudo va oltre: è l’unione dei tre elementi, azione, forma e spirito legati insieme, a formare una vera e propria forma d’arte.
Davanti al bersaglio il kyudoka si colloca in posizione di tiro con la massima naturalezza, i suoi movimenti precisi incoccano la freccia ed effettuano Torikake: si sviluppa la maggiore energia possibile del fisico ma anche della mente, l’arco viene tirato fino allo stremo, alla fine la freccia è scoccata. In questo modo agiscono assieme l’energia dello spirito e del corpo, tutto intero.