Kanamara Matsuri: la festa del pene di ferro
Durante il periodo Edo, Kawasaki era una cittadina dove i viaggiatori si fermavano quando partivano proprio da Tokyo per andare nelle zone più occidentali.
Poiché era anche a quel tempo una zona turistica, ovviamente si potevano trovare tutti i tipi di divertimenti, incluse le case da tè, dove evidentemente, non si beveva solo tè ma si indugiava in divertimenti con prostitute.
Il tempio di Kanayama, dove si tiene il Matsuri che sono andata a vedere, era visitato proprio da quelle prostitute, le quali pregavano lì per non contrarre malattie sessualmente trasmissibili.
Il Matsuri di Kanamara era invece una festa dedicata alla terra e alla prosperità.
Ecco il perché proprio durante lo svolgimento del festival viene ripetuta più volte una processione dove tanti uomini portano degli altarini con grandi statue falliche sia di legno che di ferro sopra. Uno degli altri nomi dell’evento è infatti anche “festa del pene di ferro”.
La spiegazione del nome viene da una leggenda secondo la quale nella vagina di una giovane si nascondeva un demone dai denti aguzzi che quindi castrava qualsiasi uomo con la quale la ragazza avesse rapporti intimi.
Dopo aver castrato il suo sposo durante la prima notte di nozze la povera fanciulla chiese aiuto ad uno fabbro il quale costruì un pene di ferro che finalmente ruppe i denti del demone. Da lì la statua del grosso fallo nero portato in uno degli altarini che fanno la processione.
La mia storia con questa festa è lunga e travagliata.
Dovete sapere che nonostante io abbia fatto per anni avanti e indietro per il Giappone, non ero mai riuscita a vedere questo matsuri.
Avevo tanti amici stranieri che ogni anno ci andavano, e guardavo le foto che mi mandavano con una grande invidia.
Volevo vedere anche io le grandi statue dalla forma “interessante” e partecipare alle attività per rendere grazie o pregare per la fertilità, ma per una serie di sfortunate coincidenze, in tanti anni di Giappone, non ero mai stata lì la prima Domenica di Aprile, che è quando si tiene il festival.
Quest’anno mi ero preparata in anticipo, volevo andarci a tutti i costi!
E cavolo, avrei anche io fatto una foto con in mano il famoso lecca lecca dalla forma fallica e guardato la processione dei mikoshi (gli altarini Shinto).
Inizialmente tutto sembrava essere contro di me, avrei dovuto capirlo da lì forse che qualcuno cercava di mandarmi un messaggio subliminale.
Il giorno prima piovve come non mai, con fiumi in pericolo di esondazione e vento fortissimo.
Il mio viaggio fino a Kawasaki rimase incerto fino all’ultimo, ma al risveglio dopo una notte di lampi e tuoni, il sole spaccava le pietre.
C’era solo un vento “che ci si portava via” come dicono a Roma, ma questo non mi ha impedito di prendere il largo per quel di Kawasaki e dirigermi lì insieme ad altri quattro compagni di avventura.
L’andata non ha creato problemi, ci siamo dilettati in riprese con la telecamera, tutti molto allegri e curiosi di vedere questo evento.
Cominciai a sentirmi un attimo incerta quando da Kawasaki, andammo verso il trenino che ci avrebbe portato alla stazione dove si teneva la festa.
Le facce giapponesi diminuivano mentre mi accorsi che intorno a me c’erano sempre più facce di stranieri.
Da chiacchierate appena impercettibili simili a mormorii, i decibel erano aumentati, segno che le voci sicuramente non erano giapponesi.
Il trenino era pieno di gente, ma probabilmente la proporzione era 10 giapponesi contro 50 stranieri.
Mettiamo in chiaro, io non ho problemi particolari con gli stranieri, solo che molto spesso, la loro esuberanza qui in Giappone, in contrasto con la personalità riservata dei giapponesi, mi infastidisce. Oltretutto vista la… particolarità della festa, temevo una iper esuberanza da parte di chi magari non sapeva neanche la storia e voleva solo guardarsi tanti falli portati in giro.
Però ripeto, volevo andare al matsuri e nessuno mi avrebbe fermato.
Arrivammo finalmente alla stazione di Kawasaki Daishi.
Da lì ci saremmo dovuti orientare per capire dove stava il tempio, per vederci la partenza della processione.
Senza neanche dirlo, non servì cercare, bastava seguire la mandria chiassosa degli stranieri per trovare il luogo esatto.
E qui avvenne la mia prima delusione.
Io avevo immaginato il tempio molto più grande.
Non proprio come il Meiji Jingu ovviamente, ma una via di mezzo! Invece il tempio era piccolo, non si poteva neanche entrare nel giardino perché c’era così tanta gente che usciva fuori fino alla strada.
Le bancarelle, che io pensavo essendo un matsuri sarebbero state molte, erano sì e no una decina, sparpagliate. Ma non credo neanche di averle viste tutte perché c’era talmente tanta gente che ho la sensazione di non essere neanche riuscita a vedere tutto il tempio tanto eravamo impossibilitati a muoverci.
Siamo arrivati verso mezzogiorno, intorno a noi non un giapponese ma tutti stranieri, e proprio alle 12 ricominciava la processione con i mikoshi.
Ovviamente volevamo vederla e qualcuno di noi ha fatto anche le riprese, io col mio misero “un metro e una pannocchia” ovviamente vedevo solo le teste degli stranieri e non sono riuscita ad individuare neanche il punto preciso da dove partivano col Mikoshi.
Dopo la partenza della processione, speravo almeno che la gente la seguisse scemando un po’, sfortunatamente non fu così e dopo aver assaggiato un cibo successivamente ribattezzato come “piadina alle verdure e carne” abbiamo tentato di fare almeno un giro del piccolo tempietto.
Il terreno, causa pioggia del giorno prima, era abbastanza fangoso, il che non permetteva di camminare bene, oltretutto c’era da fare la fila per qualsiasi cosa. E non una fila normale alla giapponese, ma una fila dove, se io sono a destra e dietro di me c’è il resto del mondo, arriva il gaijin fresco fresco a sinistra che chiede e viene servito.
Ho dovuto lottare con una prosperosa e un po’ minacciosa ragazza di colore per ottenere il mio piatto di takoyaki.
Dopo aver ottenuto le provviste, ci siamo messi fuori, di lato al tempio per mangiare.
Sfortunatamente il parchetto accanto era fatto di terreno sabbioso e quindi mi capitava di sentirmi “frustata” dai numerosi granelli di sabbia alzati dalla bora che tirava.
Sembrava di essere accanto all’oceano.
Mentre eravamo seduti a guardare la gente allegra che passeggiava con i famosi lecca lecca fallici, decisi che, una volta per tutte, mi sarei buttata nella mischia informe simile alla rush hour di Shinjuku, per prenderli anche io.
Armata di rabbia e buona volontà, piano piano mi avvicinai al posto più affollato di tutto il matsuri.
In realtà non capivo neanche da dove partiva la fila perché la gente, non leggendo il giapponese, non capiva le scritte che chiedevano di fare la fila normale ma accerchiava da tutti i lati il banchetto e non si avanzava.
I fortunati che riuscivano a prendere l’agognato lecca lecca, spesso impiegavano 10 minuti solo per tentare di uscire da lì.
Io ci ho provato, lo giuro, ho resistito lì venticinque minuti buoni, ma poi ho dichiarato la resa.
E non è stato per la folla stile rush hour, a quella sono abituata, se non fosse che accanto a me c’era una coppia di americani evidentemente brilli di cui lei era grossa e mi schiacciava e lui ogni tre secondi urlava a tutti “Ehi qualcuno mi dia della birra!!! Tu, hai della birra??”
Alla fine non ce l’ho fatta, qualcosa di peggio della rush hour esiste, è un’accozzaglia di stranieri messi tutti insieme affamati di lecca lecca dalla forma fallica.
Sono uscita delusa e nervosa.
Abbiamo tentato di rivedere gli altarini quando tornavano al tempio ma un poliziotto che si occupava di mantenere l’ordine in strada sembrava averci preso di mira e si metteva proprio davanti a noi a coprire la visuale.
In seguito, dopo tante peripezie sono anche arrivata davanti all’altare dove getti i soldi e preghi.
Non ci crederete ma quando ho buttato i miei 5 yen, non sono finiti nella scatola ma fuori… e non solo fuori, ma tra le tegole di legno del pavimento.
Se questo è un segno temo non avrò figli per i prossimi duemila anni.
Proseguendo il giro ci siamo fatte delle foto vicino alla statua raffigurante un membro riproduttivo maschile.
Ovviamente, qui arriva l’ennesimo straniero che mentre sorridevo alla camera mi guarda mezzo ubriaco dicendo “Is it freaking you out?” mentre toccava questo grosso emblema della fertilità.
Se fino ad allora avevo resistito, lì sono scoppiata dicendo “Non penso proprio!”
Un bel po’ delusa e nervosa, ho lasciato così insieme al resto del gruppo la piccola cittadina di Kawasaki per ritornare in quel di Tokyo.
Il mio commento sul Matsuri è che… beh, se vi capita di andarci, andateci, ma onestamente, potete farne a meno. Non si capisce quasi niente, non si vede quasi niente a meno che non siate alti dal metro e settanta in su, ed è pieno di gente rumorosa.
Probabilmente a suo tempo deve essere stato interessante, adesso è solo un richiamo per turisti.
La cosa positiva è che i soldi raccolti vanno per la ricerca di cure per le malattie sessualmente trasmissibili, quindi capisco che ci siano tanti interessi a invitare stranieri, ma come vi ho detto, se vi capita ok, se però avete un programma pieno, meglio utilizzare quella giornata per andare a visitare qualche altro posto.
L’unica cosa positiva c’è stata al ritorno, quando sulla Yamanote abbiamo incontrato nonno Sailor, ossia un vecchietto molto famoso tra i cosplayers di Harajuku per il suo vestire alla marinaretta, che si è seduto vicino a me e dopo un po’ mi ha rivolto la parola chiedendomi da dove venivamo.
Prendendo la palla al balzo gli rispondo e con una faccia tosta non indifferente gli chiedo se possiamo farci una foto insieme.
Niente da dire, Nonno Sailor, grazie! Mi hai risollevato la giornata!
Non ho molto altro da aggiungere, questo è stato il mio Kanamara Matsuri.
Lo so, vi aspettavate di meglio e onestamente anche io, ma non può andare sempre tutto bene sfortunatamente!
E se andassi a visitare il monte dei morti la prossima volta? Magari lì mi va meglio…
Un saluto a tutti e alla prossima!!!