Jidaigeki, il dramma storico giapponese
Il Jidaigeki (dramma storico) viene considerato come il cinema giapponese per eccellenza.
Nel corso degli anni il Jidaigeki si è mostrato sotto diverse spoglie passando dalla dimensione epica a quella nichilistica, da quella anti-feudale a quella segnata dalle rivisitazioni del Nuovo Cinema degli anni Sessanta, sino ad assumere, recentemente, una dimensione postmoderna.
Il Jidaigeki è definibile innanzitutto sulla base di ben precise coordinate spaziali e temporali: Jidaigeki sono infatti considerati i film ambientati in Giappone prima del 1868, anno della fine dell’epoca Tokugawa, del ritorno del potere imperiale e dell’apertura del Paese all’Occidente.
Due però sono le sue epoche privilegiate: l’era Sengoku (1478-1603), il cosiddetto ; e l’epoca Tokugawa (1603-18689), quella del Paese unificato e governato dallo Shògun (titolo ereditario conferito ai dittatori militari che governarono il Giappone durante il periodo Tokugawa).
Ambientato alla fine dell’epoca Tokugawa, “La sfida del samurai” di Akira Kuroswa del 1961, apre un nuovo capitolo nella storia del Jidaigeki, sia per una più esplicita rappresentazione della violenza e delle sue conseguenze che in chiave ironica e grottesca.
Sanjuro (il protagonista del film) si presenta come un personaggio beffardo, sprezzante e dai modi ambigui; il kimono sudicio, i capelli spettinati, il volto non rasato (a questo punto mi sembra di rivedere Joe lo straniero interpretato in maniera sublime dal buon vecchio Clint Eastwood; dopo tutto “Per un pugno di dollari”, 1964, altro non è che un remake di “La sfida del samurai”) lo identificano subito come un guerriero piuttosto lontano dall’eroe tradizionale del Jidaigeki (il vero samurai, secondo la tradizione, deve possedere un forte senso dell’onore, una spiccata dedizione al dovere e un saldo controllo di se, inoltre deve considerare la propria spada come la sua anima e usarla solo se è altamente necessario).
Diversamente da “La sfida del samurai”, segnato da una notevole dose di ironia, “Seppuku” (Harakiri, Kobayashi Masaki, 1964) si presenta come un film dai toni cupi e fortemente drammatici. Se il film di Kurosawa si caratterizzava soprattutto per la proposizione di un samurai piuttosto distante dalla sua tradizionale dimensione di epica nobiltà, questo di Kobayashi non rinuncia allo statuto eroico della figura del guerriero.
Questa pellicola può essere letta come un attacco al sistema e alle brutali logiche del potere.
Sulla falsa riga di “Seppuku” troviamo “L’oro dello Shogun” diretto nel 1969 da Gosha Hideo.
Tra le due pellicole è possibile evidenziare alcuni elementi differenti soprattutto per quanto riguarda i due protagonisti: innanzitutto Magobei (il protagonista della pellicola di Hideo) si batte non contro un altro casato ma contro quello che è stato, sino a pochi anni prima, il proprio feudo, inoltre non lo fa per vendicarsi di un proprio caro (Hanshiro, il protagonista del film di Kobayashi, al contrario lotta per vendicarsi della morte di un famigliare) bensì per salvare la vita a degli umili pescatori.
Andrea Venuti