Il mio primo giorno in Giappone
Come sapete se avete letto il mio primo articolo “La storia di Alechan“, la prima volta che andai in Giappone fu con un viaggio turistico di due settimane.
Quella non la potrei definire un’esperienza di vita, era un viaggio che mi ha cambiato la vita, questo sì, ma la quotidianità è un’altra cosa.
Per cui, in questo articolo, ho deciso di raccontarvi il mio primo giorno in Giappone da studentessa, quando vi tornai per la seconda volta al fine di frequentare una scuola di lingua.
E’ una cosa un po’ diversa da quando ci vai per vacanza, primo perché gli orari in cui ti muovi sono diversi, secondo perché entri in un ritmo di quotidianità che ti fa scoprire cose che prima per la fretta non avevi visto.
Il mio ricordo del primo giorno di scuola in Giappone, sono io, che conoscevo a stento l’hiragana, seduta ad un banco, con la sensei che non appena entra comincia a sparare a raffica giapponese, mentre nel mio cervello le rotelle si autodistruggevano una ad una.
Lo ammetto, fu un TRAUMA!
Partiamo dal principio. La sottoscritta, dopo mesi di lavoro atti solo a mettere da parte abbastanza soldi per un corso di tre mesi presso una scuola di lingua a Tokyo, con una conoscenza del giapponese a livello di mini dizionario in romaji più hiragana, che parte all’avventura con un disprezzo dell’ignoto che ora come ora mi terrorizzerebbe.
Ero piena di sogni, ma nulla mi poteva preparare alla full immersion che mi aspettava dall’altra parte del mondo.
Mi ricordo che, con una conoscente che sarebbe dovuta venire con me, ci vedemmo un pomeriggio a Roma solo per riuscire a completare tutti i form che mandava la scuola, compreso un bel “Spiegaci perché vuoi studiare giapponese”.
Da lì avrei dovuto capire che le cose sarebbero state più complicate di quanto mi aspettassi.
In ogni caso, il mio primo giorno di scuola ovviamente accadde subito dopo l’arrivo nella mia fantastica host family.
Quella mattina, la mia mamma giapponese mi portò un dolce delizioso con dentro delle ciliege candite , e con tutto che avevo dormito poco causa fuso orario, e non avevo fame, me lo strafogai!
Così, con la pancia piena, un leggero intontimento post viaggio e un’eccitazione alle stelle, arrivai fino alla stazione vicino casa.
Il primo scontro con una realtà diversa fu proprio qui.
Sì, perché ovviamente cominciando alle nove la scuola, e dovendo io assolutamente essere a Shibuya almeno quindici minuti prima, dovevo prendere il treno che passava intorno alle otto.
E dalle sette alle nove e mezza a Tokyo c’è la celeberrima e temutissima rush hour.
Vidi una marea spaventosa di persone sulla banchina, tutte in fila due a due! I treni passavano ogni tre minuti ma la banchina si riempiva non appena un treno partiva. Non capivo neanche da dove uscivano.
E in ultimo, li osservavo entrare… di retro.
Ossia non entravano nel treno di faccia ma, se avevano posto, entravano già dando la schiena a chi era dentro.
E giuro, non capivo perché, cioè, voglio dire, in Italia se entri di sedere in una metro ti guardano molto strano. In quel momento mi sembrava una cosa bizzarra, capii solo dopo che era una delle tante tecniche di sopravvivenza alla rush hour.
In realtà, devo dirlo, la mia stazione era ancora vivibile. Poco più avanti invece, si scatenò l’inferno.
C’era una stazione in particolare, era un punto di scambio tra la gente che proveniva da Chiba e doveva prendere questo treno che andava fino a Shibuya, lì feci conoscenza con i famosi, gentili, sempre pronti a darti una mano o due, “spingitori”. Gente attrezzata di guanti bianchi e casco giallo anti terremoto -a che serve non so- che prendeva le persone in fila e le sbatteva nel treno proprio come quando nell’armadio non hai più spazio e cerchi di appiattire per fare posto ad altri vestiti.
Essendo bassina e non conoscendo i trucchi del mestiere del salaryman, mi ritrovai in mezzo, vicino all’entrata, schiacciata così tanto da non avere neanche il bisogno di attaccarmi alle manovelle perché tanto… come mi muovevo? A parte che non ci arrivavo, ma soprassediamo.
In realtà le manovelle sono un salvavita! Non pensate mai che solo perché siete insardinati quello sia il peggio che vi può capitare, perché la morte in volto la vedrete quando il treno ferma di botto e le sardine nei vagoni vengono spinte tutte in avanti, sembra un’onda che si muove e non é affatto piacevole, i miei polmoni ne risentono spesso.
Oltretutto, anche se spiattellati, tutti quelli che vedevo avevano le borse aperte, le tenevano APERTE!!
Cioè, senza cerniera, senza niente, si vedeva portafoglio, abbonamento, fazzoletti…
“Paese che vai”, pensai… in ogni caso invito i lettori che vivono in Italia a non emulare questo comportamento, immaginate il perché…
Insomma, dopo questa avventura durata 43 minuti, uscii da quel treno che sembravo un capo di bucato appena centrifugato.
Con la cartina in mano, mi diressi verso la scuola senza sapere che per arrivarci, dopo essere passata attraverso l’inferno, mi dovevo fare anche una bella salita ripida fino alla viuzza incriminata dove si trovava l’edificio.
Credo che il primo giorno di scuola, all’entrata non abbia fatto una gran bella impressione.
Sembravo uno zombie, con tanto di ansimata alla cane affamato, dovuta alla salita ripida.
Aperto l’ascensore, senza neanche guardare, le persone alla segreteria mi dicono “ohayou gozaimasu!”.
….
……
E mooooooooooooo????? Che é ‘sta parola????
Panico totale e io che mi blocco sul posto.
L’unica cosa che mi salvò fu che dietro di me c’era un altro studente già rodato che rispose allo stesso modo e io ovviamente lo imitai.
Dopo aver parlato in inglese con la segretaria, lei mi portò in una piccola aula.
Il primo giorno, mi spiegò, si viene sempre sottoposti ad un test per verificare il livello di conoscenza del giapponese.
Era una cosa che ti facevano fare anche dall’Italia, perché nei moduli che ti mandavano c’era un level check, quindi non capivo la ragione di questo doppio controllo.
In ogni caso a me non serviva, voglio dire, non conoscevo una parola e volevo solo imparare dall’inizio!
Eppure mi mise lì, a leggere cose tutte in hiragana e rispondere non si sa come.
Fortunatamente erano proprio le stesse domande che mi erano arrivate per posta quindi in realtà ricordandomi qualcosa, andò bene.
Questo esamino finì un’ora dopo e ci misero nella classe giusta.
Nella mia classe c’erano altri due italiani, maschi, sposati con delle giapponesi, alcuni cinesi, alcuni coreani, degli americani e un russo.
Ovviamente il primo giorno, mentre aspettavamo la sensei, solo gli italiani mi rivolsero la parola.
Più avanti feci amicizia con tutti anche se i nostri discorsi erano sempre infarciti di inglese perché solo in giapponese ancora non riuscivamo a parlare.
Ed eccomi lì, seduta, emozionata, un po’ accaldata per le avventure mattutine, in attesa di una insegnante che mi avrebbe aperto le porte su una lingua che desideravo ardentemente imparare.
Lei entrò, con un sorriso stampato sulle labbra, ci guardò e fece un piccolo inchino.
Da lì, cominciò a parlare a macchinetta in giapponese mente il mio sorriso iniziale si era deformato in una “O” mista tra lo stupore e, ancora una volta, il panico più totale.
Io non so come fece, perché ce ne vuole a far capire le cose a delle persone che non sanno neanche bene l’hiragana, ma dopo tre volte che ripeteva lo stesso discorso, coadiuvata da una lavagna, disegnini e pennarelli vari, riuscimmo a capire che era nata a Tokyo, era sposata, aveva due figli, un maschio e una femmina, tre gatti, e viveva un po’ fuori in una casa a due piani. Inoltre le piaceva leggere e andare al cinema.
Insomma, il primo giorno, la prima cosa imparata fu la propria presentazione!
Mi ricordo che le altre tre ore, (in totale erano quattro ore di corso) le passò a insegnarci parole di uso quotidiano atte a scrivere una mini presentazione che il giorno seguente avremmo dovuto leggere davanti a tutti.
In quel lasso di tempo coprimmo anche tutto l’hiragana e, paura paura, il katakana, odiatissimo dagli studenti alle prime armi che si cimentano col giapponese.
Dopo queste ore pienissime, nelle quali avevo studiato praticamente il doppio di tutto quello fatto fino a quel momento da autodidatta, la scuola finì, ci alzammo e io uscii da lì intenta a mettere in pratica le prime cose imparate.
Era ora di pranzo, ma invece di andare a mangiare, mi diressi immediatamente al Mandarake che stava lì a Shibuya a comprare manga!
Suvvia ragazzi, non guardatemi in quel modo, dovevo mettere in pratica quello che avevo studiato no? E cosa c’era di meglio se non un bel manga per esercitarmi?
Finì che uscii dal Mandarake circa due ore dopo, con sette volumi di manga.
Mi diressi con il mio bel bottino verso casa, non prima di essere entrata in un konbini, e dopo un’attenta scelta, aver comprato dei tramezzini impaurita dall’idea di provare qualcosa di nuovo.
Il viaggio di ritorno fu meno incasinato di quello dell’andata, in treno c’erano persino i posti a sedere, e osservavo rapita le persone addormentate, godendomi il silenzio che regnava in tutto il vagone nonostante non fosse vuoto. In realtà per molti giapponesi il treno é proprio questo, è un momento per respirare, un momento di pausa dal caos quotidiano. Certo, se becchi il russatore pazzo magari non é proprio il massimo, ma il dondolio del treno sui binari concilia il sonno.
Tornata a casa, notai con mia grande sorpresa che la porta dell’ingresso non era chiusa a chiave.
In pratica, essendo la mia host family una famiglia molto amata e nota, non c’era mai stato bisogno di chiudere a chiave la porta della loro casa.
Ma insomma, appena entrata, dopo il primo “tadaima!”, la mia mamma giapponese mi vide e ovviamente cominciò a raffica a parlarmi.
A me dispiaceva tanto non capire mezza parola di quello che diceva, riuscivo qui e lì a comprendere qualcosa ma lei, essendo comunque una persona cresciuta in una famiglia benestante, utilizzava un registro molto alto quando parlava per cui anche le frasi più semplici diventavano complicate.
In ogni caso compresi che mi stava chiedendo di aspettare un attimo lì, e tornò poco dopo con un vassoio dove sopra c’erano una teiera, una tazzina, e almeno 5 diversi tipi di dolci giapponesi.
Me li diede come merenda!
Tornata nella mia camera al secondo piano, scoprii che ovviamente il tè era tè verde, e i dolci erano tutti ripieni di azuki.
Niente da dire, da allora li adoro.
E così, mi misi con la mia merenda a fare i compiti e successivamente, a testare quanto riuscivo a leggere dei volumetti appena comprati.
Riuscii a capire molto più di quanto pensassi e mi ripromisi il giorno dopo di comprare altri volumi.
Quella sera, sotto il peso di tutte le novità, il fuso orario si fece sentire alle nove, e me ne andai a letto prestissimo, non vedendo l’ora di svegliarmi il giorno dopo e cominciare una nuova giornata. Ero talmente soddisfatta e felice che neanche l’idea di un ennesimo incontro del terzo tipo con la famigerata rush hour mi impedì di addormentarmi col sorriso sulle labbra.
Questo é il ricordo che ho della mia prima giornata giapponese, risale a più di dieci anni fa e quindi sicuramente c’è qualcosa che ho dimenticato. Ma presa dai bellissimi racconti che sto leggendo ultimamente su ItaliaJapan.net nella sezione “Italiani in Giappone“, mi è venuta voglia di condividere anche il mio con voi!
Alla prossima! E ci sentiamo nel frattempo sulla mia pagina facebook eh! (-_^)v