Orizzonti noir: l’ascesa di tre grandi cineasti
Un genere che ha segnato la stagione del Nuovo Cinema Giapponese è il cinema nero. Il carattere variegato del neo-noir può essere esemplificato attraverso il breve esame di tre cineasti: Hayashi Kaizo, Ishi Takashi e Sabu.
Di formazione cinefila, Hayashi è un autore postmoderno che ha proposto una rilettura del cinema giapponese del passato, e in particolare del noir. Il carattere surreale del suo cinema è evidente già nel suo film d’esordio “To Sleep So as Dream” del 1986, che, in bianco e nero e privo di dialoghi, racconta la storia di due detective alla ricerca di una donna rimasta intrappolata in una pellicola di samurai degli anni Dieci. Stravagante e visionario, il film è un omaggio ai primi anni del cinema giapponese. Tra i suoi film più apprezzati dalla critica e dal pubblico merita di essere citato “The most Terrible Time in My Life” del 1994, ambientato nella cosmopolita e multietnica città portuale di Yokohama, ha per protagonista un ingenuo e volenteroso detective il cui ufficio si trova all’interno di una sala cinematografica. Il film, in bianco e nero, richiama sia il pop-noir della Nikkatsu degli anni Sessanta che la grande stagione del detective film americano, tanto nello sviluppo dell’intrigo, quanto nell’uso espressionistico della luce.
Al noir postmoderno e ironico di Hayashi si affianca l’opera di Ishii Takashi, che, pur in modo assai personale e senza rinunciare a una dimensione referenziale, ha assunto fino in fondo la natura drammatica del genere. Formatosi come autore di manga, in particolare della serie Angel Guts, il suo nome comincia a circolare nell’ambiente del cinema e della critica grazie ad “Original Sin” del 1992, un elegante thriller che riprende l’idea della rappresentazione di un personaggio femminile in una situazione estrema, quella dello stupro e delle sue drammatiche conseguenze. Il film più apprezzato di Ishii è però tutto al maschile, “Gonin” (in questa pellicola troviamo un cast molto ricco tra cui spicca il maestro Kitano), del 1995, storia di cinque uomini che decidono, non avendo più niente da perdere, di rapinare una banda yakuza, che non tarderà però a identificarli e a mettersi sulle loro tracce. Cupo e pessimista, il film è anche l’amaro ritratto dell’insicurezza e della precarietà della società giapponese negli anni della crisi, come testimoniano i suoi protagonisti: un impiegato licenziato dopo vent’anni di lavoro, il proprietario di un club indebitato con la mafia, un gay che ricatta i suoi ricchi clienti, un ex poliziotto che lavora come buttafuori in un locale di hostess, il fidanzato di una prostituta tailandese. Quello di Gonin è un mondo dove “le opportunità di lavoro non esistono, il suicidio è un’opzione realistica e la violenza è ovunque”.
Una terza via del neo-noir è quella percorsa da Sabu (nome d’arte di Tanaka Hiroyuki). Dopo aver tentato la fortuna come musicista rock, Sabu entra nel cinema in veste di attore, prima di esordire alla regia con “Dangan Runner” del 1996, che dà il via a una serie di commedie nere giocate in modo esasperato sul tema dell’inseguimento (ciniche commedie d’azione dove troviamo coincidenze assurde che provocano catastrofiche reazioni a catena); i quotidiani eroi di Sabu sono travolti da una successione paradossale di eventi che coinvolge e intreccia i destini di diversi personaggi, tutti egualmente incapaci di controllare ciò che accade. “Hold Up Down”, pellicola realizzata nel 2005, è sicuramente l’opera più famosa dell’eccentrico registra, dove troviamo ancora una volta una struttura a inseguimento che coinvolge due maldestri rapinatori, una coppia di poliziotti al limite della corruzione, un vagabondo scambiato per Gesù Cristo e altri insoliti personaggi.
Andrea Venuti