A un anno dal terremoto che ha sconvolto il Giappone
Esattamente un anno fa, dopo essermi alzato in tarda mattinata, uscivo di casa per andare a Kayabacho, un quartiere poco distante da Marunouchi. Era un venerdì freddo e grigio, il sole era nascosto dalle nuvole ma non pioveva. A mezzogiorno avevo appuntamento con due amiche, Etsuko e Yumi, per pranzare in un ristorante hawaiano che volevano a tutti i costi farmi provare.
Al termine della bella mangiata, dopo esserci salutati ed aver fatto due passi a Kiyobashi, un piccolo quartiere di Tokyo a cui sono molto legato, mi incamminai verso casa, totalmente ignaro del fatto che da li a poco sarebbe scoppiato il finimondo.
Poco dopo il mio rientro, un quarto d’ora prima delle 15:00, la terra iniziò a tremare. In un primo momento mi sembrò solo un’altra delle tante scosse di terremoto che a Tokyo si avvertono frequentemente, nulla di cui preoccuparsi più di tanto.
Solo dopo una trentina di secondi cominciai a percepire la paura, quando il palazzo, anziché cessare gradualmente di muoversi, si mise improvvisamente ad oscillare con molto più vigore. Fu in quell’istante che iniziai a rendermi conto della gravità di ciò che stava accadendo.
Dalla finestra scorgevo i grattacieli ondeggiare spaventosamente, tutte le cose dentro casa stavano cadendo a terra, ed era difficile anche solo rimanere in equilibrio stando in piedi. Mi riparai sotto al tavolo, mentre sentivo le porte sbattere con forza ed incessantemente. Invece di attenuarsi, la forza della scossa sembrava aumentare sempre di più, passavano i secondi ed i minuti, e cresceva il mio convincimento che neppure una costruzione antisismica sarebbe stata in grado di resistere ad una forza del genere senza crollare.
In quegli istanti pensavo che sarebbe stato meglio rimanere li sotto al tavolo, perché nel tempo di raggiungere l’uscita tramite le scale di emergenza la scossa sarebbe cessata, ma il tempo passava e gli scossoni non accennavano a fermarsi, mentre dalla strada arrivava il suono delle sirene che si sovrapponeva a quello dell’allarme antincendio scattato nell’edificio accanto.
Dopo circa tre minuti, col cuore in gola, mi affacciai al portone per vedere se c’era qualcuno, ma le voci provenivano solo da fuori, in tutto il piano c’ero solo io e non si vedeva altra anima viva. Di fronte ai miei occhi vidi solo una grande vetrata distaccarsi di diversi metri rispetto alla struttura di cemento che la sosteneva.
Trascorsi cinque interminabili minuti, i più lunghi della mia vita, il movimento iniziò ad attenuarsi fino a cessare, ed io corsi al piano terra portandomi il cellulare per mettermi in contatto con i miei amici e accertarmi delle loro condizioni.
Incredibilmente all’esterno non trovai alcun danno, a parte un paio di segnali stradali ed un semaforo storti. Non riuscivo a comprendere come fosse possibile costruire edifici in grado di resistere ad una tale forza distruttiva.
Appena cercai di chiamare qualcuno mi resi conto che il cellulare non funzionava più, il segnale era del tutto assente. Dopo alcuni minuti di inutili tentativi decisi di rientrare in casa, e proprio mentre salivo tramite le scale di emergenza arrivò un’altra forte scossa, che mi fece immediatamente invertire la direzione.
Vicino a me questa volta c’era un signore americano, che mi disse di essere molto preoccupato perché nell’arco della sua vita non aveva mai sentito un terremoto così forte, pur avendo sempre vissuto fra il Giappone e la California, entrambe zone con una intensissima attività sismica.
Passano ancora diversi minuti in cui si susseguono un numero incredibile di piccole scosse di assestamento, lo sciame sismico era così fitto che la sensazione era quella di un’incessante vibrazione del terreno.
Dopo essere finalmente rientrato in casa mi accorsi che, nonostante non funzionassero i telefoni, internet era ancora attivo, così tramite Skype chiamai i miei parenti in Italia per informarli della situazione.
Nel frattempo fissavo il televisore per controllare le notizie, così mi resi conto dell’allarme tsunami che era appena stato lanciato in tutte le coste a nord di Tokyo.
Poco dopo, su tutti i canali, cominciarono a susseguirsi le immagini devastanti mostrate anche dai telegiornali italiani, le onde dello tsunami si stavano abbattendo sul Giappone mentre gli elicotteri riprendevano quelle scene dall’alto.
Le scosse di assestamento proseguivano senza tregua. Quando calò il sole, dalla finestra di casa mia, vedevo diverse lingue di fuoco alzarsi in cielo in lontananza, da oleodotti e fabbricati in fiamme.
Ancor prima di capire chiaramente l’entità della catastrofe, iniziarono ad arrivare notizie su possibili danni alle centrali nucleari nella zona colpita dallo tsunami. Per la prima volta sentii nominare “Fukushima Daiichi”, e all’inquietudine di quei momenti si aggiunse la paura nucleare.
In materia di energia nucleare ero completamente ignorante, fino a quel giorno non avevo mai sentito la necessità di informarmi sulle possibili conseguenze di un incidente di quel tipo, per questo motivo non avevo la più pallida idea di quello che sarebbe potuto accadere.
La notte non chiusi occhio, un po’ per le incessanti scosse di terremoto, ma soprattutto per le informazioni allarmanti che si susseguivano.
Sulla NHK, la tv pubblica giapponese, vidi le immagini dell’esplosione del primo edificio che conteneva uno dei reattori, a cui seguirono le altre esplosioni. Le notizie su possibili nubi radioattive e il rischio di una contaminazione dell’acqua si affiancavano agli aggiornamenti sul numero crescente dei morti e dei danni causati dallo tsunami.
I negozi di alimentari presi d’assalto e privi di acqua e provviste, l’aria irrespirabile ed il rischio di pioggia acida a causa degli agenti chimici dispersi dagli incendi agli oleodotti e alle industrie, le notizie del costante aggravarsi della situazione a Fukushima, le balle raccontate dai media internazionali, l’incessante sciame sismico ed il pericolo annunciato di nuove forti scosse, le immagini 24 ore su 24 dello tsunami in televisione e la paura che persone care si trovassero nelle zone colpite dalle onde. Questo è il mio ricordo di venerdì 11 marzo 2011.
Però c’è anche un altro ricordo ben impresso nella mia memoria: la dignità e l’orgoglio delle persone che hanno vissuto la parte più triste della tragedia.
In quell’11 marzo la vita di molti è stata stravolta, io sono stato fortunato a non trovarmi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma nel mio piccolo posso dire che anche la mia vita è cambiata. Prima di quel giorno mi chiedevo spesso che cosa avrei fatto del mio futuro e pensavo che la mia esperienza in Giappone stesse per terminare. Vivere quella situazione ha acceso in me un legame fortissimo con questo Paese. Non mi scorderò mai quello che ho provato oltre alla tristezza e alla paura, l’emozione di vedere un popolo apparentemente così chiuso e freddo scaldarsi e tirare fuori il suo lato migliore per rialzarsi subito dopo aver subito uno schiaffo così forte dalla natura.
Quei ricordi resteranno per sempre impressi dentro di me, insieme al profondo rispetto per un popolo che ha dimostrato grande coraggio.